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Vita, storia e miracoli di un sampietrino

giugno 14, 2013

Dal comunismo al nazionalsocialismo!
Sento due mani secche sulle spalle, e la sua voce roca e stanca mentre decanta: “Bella, giovine, alta, forte! Dal comunismo al nazionalsocialismo!

oldmanSorrido.
Professore, guardi che non è andata a finir bene in nessuno dei due casi.
Dal comunismo al nazionalsocialismo!

Non mi sta ascoltando, ma non ha alcuna importanza. Il Professore ha l’attenzione già rivolta altrove.
Bella, giovine, alta, forte! Mi fai un caffettino?
La barista sorride e le sue mani si allungano meccanicamente in direzione delle cialde.

Glielo offro io il caffè al Professore.” dico snocciolando qualche monetina sul bancone, ma lei fa un cenno con la testa come a dire di no, quello è offerto dalla casa.

Non può non seguire la domanda di rito: “Allora, come va il fegato?“.
Bene! Meglio dell’altra volta! Io vivo con un quarto di fegato, sa?

Lo so, ovviamente. Me lo ha detto ogni volta che ci siamo incontrati, nelle ultime settimane.
Il Professore è un signore di cinquanta e rotti anni, che ne dimostra almeno una quindicina in più. Un po’ curvo, prosciugato, la voce ormai un rombo in fondo ai polmoni consumati dal fumo. Ha fatto tanti lavori, dal riparatore di radio fino al bidello in una scuola. Ora trascina le scarpe stanche sulle vie di un piccolo paesino nella bergamasca, chiedendo qui un caffè e là una sigaretta.

La prima volta che lo incontrai era appoggiato al bancone di quello stesso bar, silenzioso, con una strana medaglia tra le dita. La fissava assorto, e sorseggiava lentamente da un bicchiere che conteneva un intruglio sulla cui identità non ho voluto nemmeno indagare.
La prima cosa che mi disse fu: “Io vivo con un quarto di fegato, sa?

Un altro giorno mi raccontò un po’ la storia della sua vita. Tanti lavori, una pensione da fame, un vecchio conto dimenticato da qualche zio una trentina d’anni fa, di cui però si son perse le tracce. “Chissà quanti milioni saranno, adesso. Eh sì.” E giù un altro sorso di quell’intruglio diabolico.

Alla fine mi sono fatta coraggio e gli ho chiesto che cosa fosse quella medaglia. Nella mia testa si stavano già profilando scenari dickensiani in perfetto stile Capitan Nemo, ma quando me la porse e guardai la data, notai con malcelata delusione che risaliva a pochissimi giorni prima, l’aveva vinta in una gara di bocce.

Ho letto nei suoi occhi spenti una desolazione senza fine. Eppure con la sua voce profonda mi ha chiesto di tenerla, di conservarla come pegno.
Così saremmo in contatto sempre, le porterà fortuna, sa?
Ho cercato di dissuaderlo, ma niente. Quella sera sono tornata a casa con una medaglia in tasca e uno strano buco in mezzo al cuore.

Ora non abito più in quel paesino della bergamasca, e il Professore probabilmente non lo vedrò più trascinare le sue vecchie gambe alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui sa bene cosa sia. Conservo quella medaglia, però, e ricordo la sua voce sorda chiamarmi ancora…

Bella, alta, forte, giovine!

Maria Petrescu | @sednonsatiata

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